Il formatore? Interpreta la realtà e crea valore. Intervista ai presidenti di Asfor e Apaform

Il formatore? Interpreta la realtà e crea valore. Intervista ai presidenti di Asfor e Apaform

Profili, competenze, linguaggi e nuove sfide: in che direzione sta evolvendo la professione del formatore in un mondo che cambia molto velocemente e dà sempre meno punti di riferimento? A questo interrogativo abbiamo cercato di trovare delle risposte in questa intervista con Elio Borgonovi, Presidente APAFORM, e Marco Vergeat, Presidente ASFOR

Che cosa significa essere un formatore manageriale oggi. Quali devono essere le competenze distintive?

Elio Borgonovi: Essere un formatore oggi significa prima di tutto comprendere un mondo che sta cambiando rapidamente. In passato, si partiva sostanzialmente da teorie e conoscenze accumulate che venivano condivise, magari anche con l’utilizzo di metodi attivi, ma c’era un corpus di conoscenze consolidato. Oggi, invece, bisogna partire dai problemi reali e ricostruire modelli interpretativi. Pertanto, è necessario coniugare diversi aspetti: mantenere la capacità di sistematizzare le conoscenze e creare generalizzazioni del presente e del futuro, ma anche avere grande flessibilità e adattamento, contestualizzare non solo in rapporto alle dinamiche delle imprese, ma anche all’uditorio che si ha di fronte. Inoltre, si deve partire dalla singola situazione per attrarre concetti di carattere generale, perché chi opera nel concreto spesso non ha tempo e attitudine a sistematizzare e manca di una visione d’insieme. In sintesi, un formatore oggi è colui che riesce a dare conoscenze accumulate nel passato, interpreta il presente e aiuta a prospettare il futuro.

 Marco Vergeat: Chi si occupa di formazione manageriale può svolgere diversi ruoli nell’ambito del processo formativo. Ci sono formatori più focalizzati sul dominio di una disciplina specifica, mentre altri sono specialisti nella definizione dei processi di apprendimento. Sono degli integratori di molteplici competenze, degli architetti. L’ideale si raggiunge quando si uniscono queste due competenze. Da una parte, una forte competenza sul processo e sulle condizioni che generano gli apprendimenti desiderati. Quindi, un formatore che deve saper connettere un obiettivo di apprendimento con un processo di esperienza consistente e coerente rispetto a quell’obiettivo. Dall’altra parte, abbiamo un professionista che sa anche padroneggiare la competenza di una o più discipline. Ciò che dà senso alla formazione è soprattutto il valore che attraverso i contenuti viene trasmesso. Noi tutti proveniamo da un approccio di tipo scolastico: l’illusione era che l’insegnamento coincidesse col processo di apprendimento. Oggi sappiamo che la conoscenza deve essere mediata, interiorizzata, costruita attraverso l’esperienza. La conoscenza non si trasferisce da una persona a un’altra. Pertanto, sia il processo sia i contenuti sono coessenziali. Ed è fondamentale anche il taglio che si dà ai contenuti, la capacità di stimolare nel discente collegamenti e mappe concettuali complesse. Non dobbiamo dimenticarci mai che l’apprendimento è frutto di processi esperienziali che hanno una componente cognitiva, una componente operativa e una componente sociale, che si sviluppa nella relazione, nei feedback che si ricevono dal docente e dagli altri nel confronto in aula. Bisogna saper riconoscere questi tre differenti aspetti, saperli progettare e poi integrare in modo efficace.

I cambiamenti occorsi al mercato del lavoro nelle ultime due decadi sono riconducibili a una serie di fenomeni tra loro interconnessi. Pensiamo all’invecchiamento della popolazione, alla consolidata tendenza alla terziarizzazione dell’economia, all’impatto dirompente della digitalizzazione che ha improvvisamente accelerato i processi di obsolescenza delle competenze, alla flessibilizzazione dei percorsi lavorativi e più recentemente all’eredità lasciata dalla pandemia. In questo scenario, chi fa formazione manageriale come può supportare i professionisti e i manager nell’acquisizione delle competenze necessarie per affrontare questa nuova realtà?

Marco Vergeat: La prima domanda a cui bisognerebbe rispondere è la formazione “per che cosa e per chi?”. Perché un conto è istruire su una procedura o su una tecnica che ha un’utilità in sé. Ciò che serve sul piano operativo ed è essenziale per abilitare il lavoro che devo svolgere, ciò si può considerare uno strumento di sopravvivenza. Quindi in questi casi l’apprendimento è sostenuto da una motivazione intrinseca. Non c’è la necessità di una particolare legittimazione. Si tratta di incamerare una conoscenza e un “saper fare” che devo riprodurre e che mi serve con immediatezza. In questo caso siamo in un contesto dove ciò che conta è l’efficienza del processo. Posso avvalermi di qualsiasi forma di tecnologia che mi consenta di imparare dove e come voglio e di arrivare a un esito positivo con la minor fatica possibile. La formazione manageriale è molto più di questo ed è costituita da elementi che non necessariamente sono immediatamente funzionali alla sopravvivenza di breve periodo. Si tratta di mindset, atteggiamenti, competenze complesse, visioni del mondo, visione del lavoro, del proprio ruolo, delle relazioni, ecc. Tutte cose che richiedono un cambiamento su più livelli e che mettono maggiormente in discussione non solo il mio modo di fare, ma il mio modo di essere. Per questo tipo di formazione il processo è inevitabilmente più complesso e difficile da predeterminare, perché si genera nella relazione fra docente e discenti oltre che tra i discenti stessi. In tal senso, è nella qualità dell’interazione che si determina l’esperienza di apprendimento. La motivazione deve essere accesa nel rapporto. Il docente deve essere in grado di ispirare le persone facendo sì che di quella esperienza formativa venga percepito il valore e che grazie ad essa le persone intravedano la possibilità di sentirsi migliori. Diventare più capace di collaborazione, l’essere più capace di leadership, di motivare le persone e di affrontare i problemi in modo strutturato non è un obbligo, è una scelta. Devo volerlo. Ad accendere questa motivazione è il formatore. Il limite del digitale sta proprio nella sottovalutazione della motivazione e della volontà che sta dietro a ogni apprendimento complesso. Esse sono il frutto della qualità della narrazione: dentro quale storia mi riconosco, quanto è credibile chi la racconta, come prende forma il mondo e il mio ruolo attraverso quella narrazione, tutto questo è molto rilevante.

Elio Borgonovi: Fino ad alcuni anni fa, il mercato del lavoro veniva letto in termini di flessibilità. Oggi si sono evidenziati due aspetti che lo hanno reso più difficile da vivere. Il primo aspetto è l’estrema incertezza che rende le persone più deboli e stressate di fronte alla necessità di continui cambiamenti. Il secondo aspetto afferisce alla perdita di senso del lavoro, che si manifesta anche attraverso il fenomeno delle grandi dimissioni. Il lavoro non è più gratificante come una volta, anche a fronte di remunerazioni elevate e posizioni organizzative soddisfacenti. La causa di ciò è spesso legata al modo in cui i capi gestiscono le loro squadre, in particolare alla scarsa condivisione e all’incapacità di motivare le persone. Chi fa il formatore dovrebbe trasmettere alle persone proprio una motivazione e un rispetto per le persone. Questo poiché le persone sono al centro dei processi. Dobbiamo guardare oltre la divisione fra hard skills e soft skills. Il formatore dovrebbe trasmettere il messaggio che si è un buon manager quando si è in grado di valorizzare le persone per quello e si dà priorità alla centralità delle relazioni. Questi sono aspetti che vanno al di là delle soft skills.

Nella visione di ASFOR e APAFORM in che direzione stanno evolvendo il ruolo e la missione della formazione manageriale? 

Elio Borgonovi: ASFOR e APAFORM devono giocare un duplice ruolo.  Da un lato, il nostro compito è quello di contribuire a innalzare la qualità della formazione. Dall’altro dobbiamo attivarci per contribuire a costruire Reti. Questo per rispondere a uno dei problemi più rilevanti per il nostro Paese che vive proprio un’intrinseca difficoltà nel fare Sistema. Penso a Reti di formatori, di scuole di formazione, con l’obiettivo di promuovere una sana e corretta collaborazione, nell’ottica di favorire una concorrenza che sia produttiva a tutti i livelli. Sappiamo che l’Italia da sempre è caratterizzata da grandi eccellenze, ma allo stesso tempo dalla difficoltà a lavorare insieme per un obiettivo comune. Abbiamo il dovere di dare il nostro contributo per rendere questo Paese più competitivo.

Marco Vergeat: Vorrei aggiungere che la forza delle due associazioni sta anche nelle diverse anime che la compongono e dal valore che si produce nel confronto. ASFOR e APAFORM non sono realtà omogenee. Dentro ASFOR abbiamo le school of management, le aziende, alcune università, soggetti diversi che spesso hanno punti di vista differenti su quella che deve essere la mission della formazione manageriale. L’essere associazione vuol dire anche favorire uno scambio fra esperienze e concezioni diverse. Sicuramente c’è chi considera il digital learning una priorità e un driver di cambiamento fondamentale e chi invece ritiene che debba essere recuperata e messa in discussione, riletta la centralità dei contenuti. Dal mio punto di vista, ritengo che la formazione debba sì aiutare le persone ad adattarsi di più e meglio alla realtà, ma che allo stesso tempo non si possa perdere di vista il suo ruolo trasformativo. Penso che la formazione abbia il compito di aiutare le persone ad avere una concezione del lavoro e anche del mondo più giusta e più equa. La formazione deve favorire il progresso sociale e culturale e non essere guidata esclusivamente dall’idea di efficienza e prestazione. Quindi è necessario sapersi interrogare sulla qualità dei contenuti, rendere conto di valori e scopi. Tale impostazione si riflette anche nelle modalità di insegnamento. C’è chi sceglie di mettere l’accento sulle regole applicative, quindi si preoccupa di fornire tool e soluzioni operative, e chi invece si focalizza sul cercare un senso, sullo spiegare “il perché”. A mio avviso, troppo spesso si danno per scontati gli aspetti di significato per soffermarsi sulle tecnicalità.

Abbiamo bisogno di promuovere nuovi linguaggi e stili di formazione per comunicare in modo efficace con una generazione di lavoratori che hanno abitudini e aspettative diverse rispetto al passato?

Marco Vergeat: Tutti questi distinguo, a mio parere, spesso sono usati come alibi, anche inconsapevolmente, per non affrontare le vere opportunità di miglioramento della formazione. Esse consistono nella possibilità e nella capacità di dare un senso e uno scopo all’azione formativa. Un senso e uno scopo che sia compreso, accettato e stimolante per le persone. Il nuovo linguaggio alla fine che cos’è? C’è chi sostiene, ad esempio, che un linguaggio iconico oggi può funzionare meglio di un linguaggio concettuale. Ma non sarà, mi chiedo, che la scelta di linguaggi iconici copre solo una povertà di orizzonti o di significati che si fanno fatica a trovare?

Elio Borgonovi: Secondo me, la cosa più difficile riguardo al linguaggio non è solo la scelta delle parole, ma piuttosto la capacità di esprimere una “cultura” attraverso il linguaggio stesso. In molti casi, il formatore può avere un’età differente rispetto alle persone presenti in aula, il che può creare una “contraddizione” nella formazione. Ad esempio, ci possono essere generazioni che rispetto al formatore sono più giovani, o anche più anziane, considerando il fenomeno del lifelong learning. La sfida è riuscire a sintonizzarsi con l’aula. Il linguaggio rappresenta una delle sfide più complesse per chi fa questo lavoro, che deve avere prima di tutto una grande capacità di ascolto e il talento di riuscire a mettersi sulla stessa lunghezza d’onda dei propri interlocutori. La differenza tra un buon formatore e uno meno efficace non è tanto legata alla conoscenza dei contenuti, ma all’abilità di comprendere i modelli interpretativi delle persone presenti in aula che poi è quello che ti porta a utilizzare un linguaggio di comunicazione che sia comprensibile per loro. È fondamentale percepire il sentiment di chi hai di fronte, dimostrare empatia e comprendere se le persone stanno seguendo o sono distratte. Ci sono dei meccanismi quasi biologici che entrano in gioco quando si tratta di comunicazione efficace!

Come si deve formare oggi un formatore? Quali sono le nuove competenze che sono indispensabili per rispondere ai bisogni del mercato del lavoro di domani?

Elio Borgonovi: Suggerisco di partire da qualcosa di molto tradizionale, cioè andare in aula a seguire altri formatori. Si impara prima di tutto da chi sa fare bene questo mestiere. Vi è una conoscenza tacita che viene trasmessa in questo modo. Solo così si comprendono i meccanismi, si imparano a misurare le reazioni dell’aula, si apprende il senso del ritmo. Ci sono alcune conoscenze di base che certamente si possono imparare con il “Corso Formatori”, ma non si può prescindere dall’integrarlo con un’esperienza dal vivo. Questo significa rubare i segreti da quelli bravi, ma posso dire che si impara anche dagli esempi negativi. Il formatore si forma anche prendendosi il tempo per essere osservatore di processi formativi.

Marco Vergeat: Intanto leggendo qualche libro! (sorride, ndr). Quando si riflette su come si debba formare un formatore ritengo che sia fondamentale partire da dei distinguo: quando si parla di formazione è necessario considerare tre diverse sfere. Ci sono tre mondi: i contenuti, il processo di apprendimento e la tecnologia. Il primo concerne le discipline di cui sei titolare e richiede studio, applicazione, ricerca e aggiornamento continuo. Il secondo mondo si riferisce al processo di apprendimento e richiede una cultura e una sensibilità riguardo ai modelli di apprendimento stesso e alle tecniche di progettazione. Infine, il terzo mondo riguarda la tecnologia e la sua integrazione con le altre soluzioni analogiche.

Che rapporto deve avere il formatore con lo sviluppo digitale e la diffusione di tecnologie come la IA?

Marco Vergeat: La tecnologia è molto utile nella misura in cui consente di arricchire l’esperienza di apprendimento del discente. Tuttavia, negli ultimi anni c’è stata una deriva sul digitale che è strettamente legata a una logica di efficientismo e contenimento dei costi. Il digitale è stato sviluppato principalmente per ridurre gli spostamenti delle persone, risparmiare sulle trasferte e impegnare meno il tempo delle persone. Tuttavia, nessuno ha affrontato veramente l’innovazione tecnologica pensando a come investire per organizzare per i discenti delle esperienze più articolate e sfidanti. Purtroppo, nella maggior parte dei casi si tende a trasferire processi tradizionali su soluzioni digitali. La conseguenza è un impoverimento dal punto di vista della relazione diretta, come avviene spesso nei corsi a distanza.

Elio Borgonovi: Di fronte alla tecnologia riscontro tre tipi di reazione. Ci sono gli entusiasti, che abbracciano totalmente la tecnologia e il digitale. A questa categoria appartengono coloro che puntano sugli “effetti speciali”. Alla fine, credo che la logica non sia molto diversa da quella che ispirava chi, già prima della rivoluzione digitale, punta sui film per spettacolarizzare la formazione. Poi c’è un secondo atteggiamento, che è quello di chi dice che le tecnologie tutto sommato spostano poco. Qui colloco coloro che magari non padroneggiano troppo bene gli strumenti del digitale, per cui li usano il minimo indispensabile. La terza posizione è la più difficile. Qui troviamo chi sa utilizzare la tecnologia e la usa ma ad essa aggiunge la capacità di focalizzarsi sui contenti. Ma in questo gruppo metto anche chi se non sa usare direttamente la tecnologia, non ne nega l’utilità. Per cui coinvolge qualcuno che possa supportarlo su questo fronte e si riserva la parte di spirito critico. La tecnologia è la via per avere una mole più grande di dati, per elaborarli più in fretta, ma poi tocca all’uomo interpretarli. Non è vero che l’Intelligenza Artificiale non mi cambia la vita, ma allo stesso tempo non sostituisce l’intelligenza intuitiva ed emozionale.

Comunicare la formazione è spesso altrettanto importante quanto la formazione stessa. Quanto conta per un formatore o un ente formativo utilizzare canali di comunicazione adeguati per promuovere il valore della formazione in un mondo che cambia rapidamente?

Elio Borgonovi: Questo ritengo che sia un punto debole. Riscontro un’oggettiva difficoltà nel trasmettere il valore della formazione attraverso la comunicazione. Se è facile misurare l’efficacia di una politica di marketing attraverso l’aumento delle vendite, lo stesso meccanismo non si può applicare al nostro mondo. La valutazione dell’impatto della formazione è più complessa e non immediatamente misurabile. Attualmente la comunicazione delle realtà del comparto sembra essere concentrata sul prestigio e sul valore istituzionale. Il ranking diventa un fattore su cui costruire la propria attrattività, ma non si trasmette il vero valore della formazione. Credo che per superare questa impasse sarebbe opportuno elaborare più indagini che dimostrino come le aziende di successo oggi siano quelle che investono molto in formazione. E poi possono essere importanti le testimonianze delle persone. Una comunicazione efficace dovrebbe essere basata sull’esperienza e sulla narrazione, così da rendere tangibili i benefici della formazione, in modo che ci sia la possibilità di riconoscersi in queste storie. Questo è il modo per trasmettere il valore della formazione in modo più efficace e coinvolgente.

Marco Vergeat: L’efficacia della comunicazione della formazione è direttamente correlata a quanto si è convinti di offrire delle soluzioni veramente consistenti. Mi sembra che di offerta formativa ce ne sia in abbondanza. Il problema non è tanto come comunicarla, ma individuare la quota di questa offerta che è veramente utile. I bisogni di apprendimento, espliciti o latenti, sono sicuramente molti. Ma è da vedere se a questa richiesta corrisponda un’offerta di formazione capace di accompagnare davvero le persone all’interno di questa complessità, in uno scenario che muta molto velocemente e crea un gap di conoscenze. Siamo di fronte a un cambiamento di una portata tale che finisce con lo spiazzare i formatori stessi. Questo pone un tema che è veramente importante: dove si formano i formatori? Dove acquistano quel delta che gli consente davvero di fare la differenza?

Che consigli dareste a un giovane che vuole intraprendere la professione di formatore?

Marco Vergeat: Si tratta di vedere in quale istituzione lavora. Se opera all’interno delle Università il consiglio è di fare molta ricerca e coltivare le proprie competenze. Se invece lavora come formatore nella società, in azienda o nell’area della consulenza, gli suggerei di “imparare a saper fare” qualcosa prima. Per poter fare della formazione manageriale devi aver accumulato delle competenze e avere alle spalle un’esperienza che ti consenta di aiutare qualcun altro a capire e ad apprendere. Devo essere prima un professionista di un determinato ambito per poi mettere al servizio degli altri la mia esperienza. Fare il formatore manageriale vuol dire formare alla gestione. È difficile insegnare a gestire non avendo mai gestito niente. Quindi o punti a diventare un super specialista – questo implica un percorso di studio e ricerca in centri di eccellenza – o, se invece affondi la tua capacità nell’esperienza, l’insegnamento deve arrivare a coronamento di un percorso professionale.

Elio Borgonovi: Come ho detto prima, a un giovane suggerirei di seguire qualche esempio di formatore considerato valido. E poi lo invito a prendere la consapevolezza che quella del formatore è una funzione che ha grande responsabilità, perché non solo contribuisce a determinare le conoscenze, ma soprattutto gli atteggiamenti e i comportamenti di altri che poi hanno riflessi nel mondo in cui viviamo.