Alle radici del purpose. Su formaFuturi l'intervista a Marco Vergeat

Alle radici del purpose. Su formaFuturi l'intervista a Marco Vergeat

L’impiego del concetto di “purpose” all’interno delle organizzazioni contemporanee è sempre più diffuso. Il termine ha assunto un significato che supera la mera nozione di scopo, di missione o visione per abbracciare questioni di etica e obiettivi a lungo termine. Attraverso questo dialogo con Marco Vergeat, Presidente di ASFOR, l’articolo indaga l’evoluzione del concetto di purpose, con un excursus che, partendo dalla letteratura manageriale, arriva ad analizzare quanto questo elemento influisca attualmente sull’identità e sull’impatto sociale delle imprese

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Intevista a cura di Andrea Crocioni, pubblicata sul numero di aprile-maggio di formaFuturi

Il termine “purpose” sta diventando sempre più centrale nel vocabolario delle organizzazioni moderne, soprattutto quando si discute dell’identità e dell’impatto sociale delle aziende. Ma perché continuiamo a utilizzare questa parola inglese, “purpose”, e non il suo equivalente italiano “scopo”? Questa scelta terminologica credo non sia casuale…
I due concetti non sono completamente sovrapponibili. In inglese, la parola “purpose” abbraccia non solo il significato di scopo, obiettivo o finalità, ma si estende anche all’intenzione, alla convinzione, al senso e alla ragion d’essere, incorporando una forte componente di tipo etico. A differenza di termini come “mission” e “vision”, che sono stati tradotti in italiano mantenendo un significato analogo, probabilmente il termine purpose rimane invariato rispetto alla lingua originale in quanto racchiude uno spettro più ampio di significato. Questo termine condensa non solo la riscoperta e la ripresa delle origini di un’organizzazione, il suo motivo fondativo di esistere, ma anche l’intenzione e la visione dell’avvenire con cui questa opera nel mondo, con il fine di renderlo un luogo migliore.

Partiamo dalla storia. In che momento si inizia a parlare con consapevolezza del concetto di purpose delle organizzazioni, se ne definisce il “perimetro” e se ne inizia a riconoscere la rilevanza?
L’elaborazione del concetto di “purpose” ha iniziato a diffondersi e acquisire via via negli anni maggiore rilevanza a partire dai primi anni del 2000. Significativa per la letteratura manageriale è stata la pubblicazione di “Start with Why” di Simon Sinek nel 2009, un’opera che, in tema di leadership, ha attirato l’attenzione su questo concetto. Un altro riferimento importante in questo ambito è il libro “Purpose” di Joey Reiman, pubblicato negli Stati Uniti nel 2013. Questi testi hanno contribuito a dare slancio e forma alla discussione sul purpose delle aziende. Quindi, sebbene il tema del purpose abbia iniziato a emergere all’inizio del XXI secolo, è nel decennio successivo che abbiamo visto un approfondimento e un’elaborazione più strutturata di questo concetto nella letteratura manageriale.

Perché questa discussione si apre proprio in quegli anni?
Questa domanda è importante e la risposta è complessa. Penso vi siano una combinazione di fattori e di ragioni profonde. Partiamo da queste ultime che sono connesse all’evoluzione economica, sociale e culturale dei Paesi occidentali a partire dall’inizio del nuovo secolo, giungendo fino a oggi. Se verso la fine del secolo scorso avevamo assistito al tramonto delle grandi ideologie novecentesche, negli ultimi trent’anni abbiamo progressivamente vissuto la fine delle altre tre grandi narrazioni che le avevano sostituite: la globalizzazione, che avrebbe portato a tutti pace, diritti e benessere, internet e la rivoluzione digitale che sarebbero state leve universali per la diffusione della conoscenza e della democrazia e l’Europa unita, una nuova patria senza frontiere e divisioni. “Queste sarebbero state le nostre cornici simboliche e valoriali entro le quali ci eravamo impegnati a costruire il nostro benessere” (M.Valerii – “Vivere senza domani”- Limes Febbraio 2024). Sono sotto gli occhi di tutti le ragioni per le quali si sono infrante queste narrazioni e ha prevalso un enorme spaesamento e un sentimento di insicurezza, la sfiducia, quando non la paura, del futuro. Tutto ciò ha lasciato un enorme senso di vuoto, aggravato per molti dalle difficoltà economiche, dalle incerte o del tutto assenti prospettive di miglioramento del proprio status, dalle preoccupazioni per le guerre e per il clima. È in questa cornice che si colloca il dibattito sul purpose. Joey Reiman lo scrive con chiarezza nella sua introduzione: “L’imprenditoria può salvare il mondo?…questa domanda sono dell’idea che sia sempre stata al centro del purpose di un’azienda… in un contesto che vede il terrorismo internazionale in azione, economia in bilico, il clima sempre più compromesso e una crisi profonda di senso, sono testimone del ruolo salvifico dell’impresa… l’eticità è la nuova valuta del business, un mondo migliore il suo bilancio”. Dunque, il purpose risponde, da una parte a un nostro bisogno di trascendenza, di dare un senso (nella triplice accezione di significato, direzione e sentimento) al nostro impegno e alla nostra stessa esistenza. Di sentirci parte di un disegno più grande e finalizzato a qualcosa di positivo. Dall’altra parte, risponde a un’esigenza delle imprese di distinguersi sul mercato per responsabilità e sostenibilità, di affermare un ruolo non “predatorio” e orientato esclusivamente al profitto, ma un ruolo benefico, capace di generare valore per i tanti e diversi stakeholder.

 C’è una differenza tra il concetto di purpose e quelli di missione e visione?
Sì, esistono differenze sostanziali tra i concetti di purpose, missione e visione. Il purpose rappresenta un insieme complesso che include lo scopo, l’intenzione e i valori che un’azienda intende esprimere e sostenere. Il purpose dovrebbe rappresentare una guida dell’impresa verso il futuro a cui aspira, al contempo la ricollega strettamente alle sue origini e al suo ethos. Inoltre, come dicevamo prima, il purpose incarna l’ambizione di un’azienda ad influire positivamente sulle condizioni, sul divenire del mondo. Ciò attraverso l’esercizio del proprio sapere e saper fare e dei propri valori. Tornando alle differenze fra purpose, missione e visione: la missione descrive principalmente le attività correnti di un’azienda, il suo impegno e quello che offre al mercato. Ad esempio, un’azienda che promuove uno stile di vita sano potrebbe avere la missione di “fornire prodotti naturali e sostenibili di alta qualità”. La visione, d’altra parte, è orientata al futuro e descrive “dove” l’azienda aspira ad essere nel medio-lungo termine. Nel caso preso ad esempio, la visione potrebbe essere “diventare un leader mondiale nel settore del benessere”. Il concetto di purpose, invece, si distingue per il suo approccio più ampio e integrativo, che non si limita a descrivere cosa fa l’azienda o dove vuole andare, ma ci dice perché esiste, mirando a ispirare sia i clienti che i dipendenti. Ad esempio, il purpose di Microsoft è di “abilitare persone e aziende a realizzare il proprio potenziale”, mentre quello di Coca-Cola è di “ispirare ottimismo e felicità…” giusto per citare due grandi aziende globali.

La differenza si basa dunque anche sulla capacità di ispirare le persone?
La comunicazione del “perché” attraverso il purpose si collega più direttamente con le emozioni e i valori personali, influenzando sia il comportamento dei consumatori che acquistano i prodotti e i servizi dell’azienda, sia la cultura interna, l’adesione al progetto da parte dei lavoratori ed il loro engagement. Proprio Simon Sinek in “Start With Why” chiarisce come le aziende che comunicano efficacemente il loro purpose possano ispirare le persone a sostenere i loro prodotti o servizi non solo per ciò che offrono ma per i valori che rappresentano. Il purpose di un’azienda porta con sé una carica emotiva potente, non limitandosi a fare leva sulla razionalità. Il purpose deve certamente riflettere l’identità unica dell’azienda, frutto della spinta spesso rivoluzionaria che ne ha determinato la nascita e frutto della sua storia irripetibile. Ma deve anche tenere conto della sua aspirazione a evolversi e a crescere. E qui deve fare i conti con la dura realtà. Un esempio è costituito da Spotify che nasce per “distribuire musica con elevata qualità gratis”, ma deve farlo legalmente (i siti pirata esistevano già) e non riesce ad associare e ottenere i diritti delle major quindi il suo purpose cambia e si adatta non senza crisi e strappi interni. Ma si trattava di cambiare o morire. Quindi anche il purpose non è un concetto statico ma dinamico, che collega il passato storico dell’azienda con le sue aspirazioni e la sua idea di un avvenire realizzabile. Sul tema dell’ispirazione è importante ricordare anche come funzionano quelle che Reiman chiama “idee master”. Esse spesso si affiancano e accompagnano la comunicazione del purpose, si ricorderanno ad esempio il “Just do it” di Nike, o il “Think different” di Apple, o il “Don’t be evil” di Google. Le idee master sono verità tendenzialmente immutabili, che comunicano energia e passione, sono un appello alla mobilitazione e hanno una forza trasformativa.

Che cosa rende la dichiarazione di un purpose veramente credibile, e quindi in grado di generare gli effetti positivi che ci si aspetta? Vari articoli, anche di questa rivista, hanno richiamato l’importanza di essere coerenti. Cosa ne pensa?
Verissimo, l’importanza di mantenere una coerenza tra il purpose dichiarato e le azioni effettive dell’azienda non può essere minimamente sottostimata. Questa coerenza è fondamentale non solo per i suoi effetti verso il mercato, verso l’esterno dell’azienda, ma altrettanto verso i propri lavoratori. Quando un’azienda dichiara il suo purpose ma poi agisce in modo contraddittorio, non solo compromette la sua credibilità verso i clienti, ma rischia anche di minare la fiducia dei suoi collaboratori, partner e fornitori. La coerenza tra il purpose e la pratica quotidiana dovrebbe riflettersi in ogni aspetto dell’operato aziendale, dalle decisioni strategiche agli investimenti, dai programmi di innovazione alle politiche di gestione del personale. In definitiva, il vero parametro di successo di un purpose non risiede nelle parole utilizzate per descriverlo e nemmeno nella capillarità dei piani di comunicazione, ma nell’insieme delle decisioni e delle azioni che ne perseguono la realizzazione. Credo sia questa capacità di essere coerenti, seppure in modo dinamico e capace di adattarsi all’evoluzione dei mercati, che finisce per connotare la reputazione e la capacità attrattiva dell’azienda verso i migliori talenti.